Le regie che tradiscono i libretti, la scarsa dignità accordata all’opera italiana, la necessità di una migliore formazione musicale… Con piglio ironico e molto personale, ieri, a Milano, Riccardo Muti è tornato su alcune sue ricorrenti battaglie. Lo ha fatto, prima in un incontro con il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, nella Sala Buzzati del quotidiano; poi, in serata, alla trasmissione «Che tempo che fa» condotta da Fabio Fazio. L’occasione è stata la presentazione della nuova collana di 32 registrazioni La musica è la mia vita in edicola con il Corriere, un modo «per far apprezzare il lavoro di Muti attraverso le sue stesse scelte», ha illustrato Fontana. Anzitutto per Muti è urgente sottolineare l’identità italiana della musica. «L’Italia è il Paese della musica. Guido d’Arezzo ha dato il nome alle note, la Camerata dei Bardi ha inventato il teatro d’opera, Corelli il concerto grosso, la città di Cremona gli strumenti e Scarlatti non ha mula da invidiare a Bach… Pure Respighi, Sgambati e Busoni hanno cercato di difendere l’italianità nei confronti del sintonismo tedesco». Il problema è che parte della critica e una diffusa vulgata tra i melomani hanno generato stereotipi che generano discredito verso alcune interpretazioni della nostra musica. Per esempio, il primo Verdi. «Si ripete che le partiture del primo Verdi siano rozze. Non è vero, sono eseguite male — racconta Muti —. In altre opere di Verdi si pretendono acuti senza senso. Rigoletto, che è un’unica arcata musicale, è diventata un’opera piena di acuti che Verdi non ha mai scritto. Aida è urlata anche dove c’è scritto pianissimo. Per non aver urlato, Bergonzi fu contestato a Parma e i loggionisti, anziché ricredersi, dissero che aveva sbagliato Verdi a scrivere pianissimo. Bisogna stare attenti alla tradizione quando è codificata in maniera falsa. Altrimenti si finisce con il trattare la nostra opera come un musical». Ci sono poi i pregiudizi verso alcune opere. «Al Maggio fiorentino, negli anni Settanta, io e Vlad decidemmo di fare Cavalleria rusticana e Pagliacci. In Consiglio comunale fecero una battaglia contro e fummo accusati di fascismo. Poi la fece Karajan, e oggi Thielemann… Alla Scala, la trilogia popolare verdiana è tornata solo dopo vent’anni a causa dei pregiudizi». Anche le troppe direzioni musicali per un singolo direttore sono motivo di perplessità. «Anch’io, negli anni Settanta, ho diretto insieme le filarmoniche di Londra, Filadelfia e Firenze… Poi ne ho lasciata una. Se si vuole fare il direttore musicale seriamente, lo si deve fare per una sola istituzione. Al massimo per un teatro e una filarmonica». Inoltre, per ogni cosa c’è un suo tempo. «Ho diretto Don Giovanni à quasi cinquant’anni e dicevo a me stesso: “Come osi?”. Oggi lo dirigono anche i ragazzini: come è possibile?». Ma più che i colleghi. Muti bacchetta i registi. «Strehler non era solo un grande uomo di teatro, conosceva bene la musica. La sua regia non era come le abominevoli regie che si vedono oggi e vengono da alcuni lodate. Per fortuna non faccio il critico! Ho visto in televisione un po’ della Traviata con regia di Thcerniakov («prima» della Scala del 2013, ndr), con Violetta che fa la pasta intorno ad Alfredo e con il giardiniere costretto ad ascoltarla per dare un senso alla regia. L’ho trovata un insulto a Verdi e all’Italia. Io non sono un conservatore; ho fatto nove regie con Ronconi, anche con testate, ma intelligenti. Quando la parte registica è assurda offende l’opera con baggianate che il giorno dopo, specialmente in Germania, finiscono sui giornali».
Ma una migliore disposizione verso la musica italiana può rinascere solo partendo dalla scuola. «La formazione nei conservatori non è sempre adeguata e, soprattutto, non c’è uno sbocco. Le orchestre sono poche e non c’è posto. Se si insegnasse più musica nelle scuole ci sarebbe posto come docenti. Quello che in Italia non si capisce è l’importanza didattica della musica per formare un buon cittadino: una orchestra è l’immagine di una società civile, è fatta di un insieme di persone che non si devono dar fastidio e raggiungere un obiettivo comune». L’ultimo pensiero di Muti è per la sua città di nascita, Napoli (i suoi erano di Molfetta). «Dirigo la Filarmonica di Vienna da 46 anni. Eppure, quando ho diretto il concerto di Capodanno (1993, 1997, 2000 e 2004, ndr) su un giornale, scrissero: “Cosa ci fa un napoletano sul podio di Vienna?”. Pregiudizi. Non sanno che, ai tempi di Strauss, se c’era una capitale in Italia, quella era Napoli. Quest’anno sono i 200 anni dalla morte di Paisiello, speriamo che qualcuno se ne ricordi».