Sorpresa: Verdi e Puccini sono dei brand che richiamano ancora e non solo il pubblico, perché non hanno mai smesso, ma anche gli investitori. Su 60 milioni e 692 mila euro di contributi privati alla cultura versati fino al 28 gennaio con il meccanismo dell’Art Bonus, 34 milioni e 534 mila, cioè il 57%, sono andati a favore delle fondazioni lirico-sinfoniche e dei teatri di tradizione, che fanno molte cose ma principalmente la buona vecchia cara opera lirica. Insomma, al mecenate il melodramma piace più dei musei. Il risultato arriva da una minuziosa inchiesta di Mauro Balestrazzi per il mensile Classic Voice, sempre molto attendibile quando si tratta di fare i conti in tasca ai nostri teatri. Di solito i consuntivi sono disastrosi; stavolta, cautamente positivi. L’Art Bonus, ricordi a molo, è il meccanismo che concede benefici fiscali (credito d’imposta del 65%) a chiunque, persone fisiche o società, eroghi denaro a sostegno di cultura e spettacolo. Tu finanzi mostre, biblioteche, archivi e, appunto, teatri, e lo Stato ti fa lo sconto sulle tasse. L’idea, pare, funziona. E soprattutto funziona per le magnifiche (si fa per dire) 14 fondazioni lirico-sinfoniche, tradizionalmente abbonate ai conti in rosso. Ovviamente, con le prevedibili differenze: si va dai 15 milioni e rotti incassati dalla Scala ai 7.450 euro del Petruzzelli di Bari (ci sono poi tré fondazioni a quota zero. Fenice, Massimo di Palermo e Lirico di Cagliari, ma almeno per Venezia il dato è ingannevole: gli accordi con i privati ci sono, ma erano stati siglati prima dell’Art Bonus). La Scala ha anche «sfondato» la soglia del 50% di contributi privati in rapporto a quelli pubblici: dal 49,2% del 2014 al 53,6 del ’15, anche se questi dati sono provvisori perché non tutti i bilanci sono ancora stati chiusi. È chiaro che il nome Scala ha un’attrattività che pochi teatri possono vantare, non solo in Italia ma nel mondo. Però è altrettanto chiaro che di Alexander Pereira si può discutere qualche scelta artistica, non l’abilità nel trovare soldi che fu, poi, il grande argomento per nominarlo sovrintendente. Dopo Dolce & Gabbana, ha appena arruolato come «socio sostenitore» (600 mila euro all’anno) la Bmw. E se di recente D&G hanno potuto sfilare sul sacro palcoscenico scaligero, magari prossimamente vedremo un’automobile esposta nel foyer fra le statue di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi: non ci sarebbe niente di male. Se portano soldi, ben vengano i mercanti nel Tempio. Del resto, all’ultima «prima» bolognese era ostensa in teatro una fiammante Lamborghini. Sacrilegio? Macché. Grazie all’Art Bonus, il Comunale di Bologna è passato da 316 mila euro «privati» nel ’14, il 2,1% del budget, a poco meno di 3 milioni, il 18,6%, nel ’15. E il Regio di Torino? Si piazza assai bene: terzo in graduatoria nel ’14, con poco più di 4 milioni da privati, nel ’15 scende di un posto e poco sotto i 4 milioni. Si sa che le attuali difficoltà di cassa del teatro, che ritardano i pagamenti e fanno accumulare interessi passivi, sono di responsabilità «pubblica». Come, del resto, la progressiva erosione del Fus. In generale, che i privati investano in cultura è un buon segno non solo per la cultura, ma anche per l’economia. Forse si vede la luce in fondo al tunnel della crisi: le fondazioni liriche (esclusa la «sinfonica» Santa Cecilia) «pomparono» dai privati 38 milioni nel 2005, che salirono a 50,7 nel ‘10, scesero a 47,4 nel ’12, a 37,2 nel ’14 ma nel ’15 sono già 47,7. L’opera è e resta, meglio non illudersi, lo spettacolo antieconomico per definizione, in crisi da quando esiste. Però almeno c’è una buona notizia, e non è poco per un ambiente che non è per nulla abituato a riceverne.